domenica 13 ottobre 2013

Recensione: Stephen King, 22/11/’63

Un libro di King è come un film di Tarantino: è quella roba lì, ambientata in un luogo qualunque o in un tempo qualunque o con protagonisti qualunque, ma da lì non si scappa.

Soprannaturale condito ad horror e splatter per il Re, personaggi irreali conditi a ottimi dialoghi e splatter per il regista. Ma quello che conta, per entrambi, è la capacità di saper raccontare!

Questo voluminoso volume non fa differenza. Al di là della ricostruzione storica più accurata del solito, delle elucubrazioni spazio-temporal-filosofiche, dell'intreccio con il reale e della nostalgia dell'autore per i decenni della sua infanzia, quello che colpisce - ancora e sempre - dei romanzi di King è la sua capacità di scrittura.

Personaggi sempre a fuoco, vicende inutili ai fini della narrazione che appassionano come ne fossero invece il fulcro, dettagli e metafore sempre nuove a profusione. Forse è un po' ripetitivo sul fronte dei "suoni" che inserisce nei suoi racconti: è sempre tutto liquido (il sangue che scorre, un pugno che colpisce, una tosse persistente). Ma glielo si perdona.

Ma quello che più mi piace di SK, e di cui negli anni è andato aumentando l'utilizzo e la disinvoltura nel metterlo sulla pagina, è il cambio d'interlocutore. Mi spiego. Uno legge, legge e si fa coinvolgere nella vicenda: puoi essere coinvolto quanto vuoi, ma vedi sempre tutto dal di fuori. Invece ogni tanto lo scrittore si dimentica del patto con il lettore e si rivolge a te, sì, proprio tu che stai leggendo la pagina. Improvvisamente ti ci ritrovi dentro e quello che sembrava confinato negli anni 60 (come in questo caso), te lo ritrovi addosso.

Un esempio:
Prima di andare a letto, le applicavo con cura l'unguento sul viso ferito, e quando eravamo sotto le coperte... era bello. Accontentatevi di questo.
Questi sono piccoli colpi di genio, per me, che valgono un punto in più durante la lettura.